Cesare Inzerillo arriva con la sua “Classe morta”. Allinea i suoi residui di umanità, accomodati come le persone che furono, nei ruoli che ebbero. Una classe morta, come fu quella di Tadeusz Kantor che rappresentava gli uomini dall’altra parte della vita ormai senza più nessuna possibilità di fare nulla, ma ancora nei banchi di una classe, in una scuola popolata di fantasmi. Inzerillo vede la realtà sciagurata dalla morte. Comportamenti quotidiani, attitudini, modi di essere, di vivere, sono rappresentati da scheletri, da mummie estratte da una catacomba di Cappuccini così frequenti in Sicilia, dove, vestiti e atteggiati come erano in vita, sono gli scheletri dei monaci morti. Potrebbe essere considerato, Inzerillo, il continuatore di quella tradizione. Un incontenibile Inzerillo, sopraffatto dall’ironia, che è il monito trasmesso da questi precursori, e si dissolve subito in divertimento, in gioco.
Ecco i suoi personaggi di un teatro dell’assurdo, oltre la speranza, oltre ogni possibilità di scampo. Sono arrivati troppo tardi. Come nelle lapidi sulle quali si ricordano le virtù di un defunto, anche se abbia condotto una vita scellerata. L’aldilà annulla le differenze, le gerarchie, le competizioni: “expecto donec veniat immutatio mea”. Ecco, giunti a quella condizione, i corpi perduti di quegli uomini non possono conoscere mutamento. Continuano a recitare il ruolo loro attribuito nella vita, non potendo sperare di avere altro destino che la fine. Con questa visione apocalittica, Inzerillo strappa il sorriso, determina ammiccamento, complicità. Nessun gesto, nessuna attitudine scherzosa, nessuna impudicizia sono precluse o proibite. Non sono richiesti né contegno, né ruoli prestabiliti. La morte è arrivata all’improvviso e ha fissato gesti, smorfie, travestimenti. Questi ultimi appaiono tanto più incongrui e ridicoli perché non servono più a nulla. Inzerillo insiste, mostra gli sforzi di chi voleva essere e non è stato, di chi era e non è più. E noi, come nelle tombe dei Cappuccini, avvertiamo che c’era tanta speranza, tanto desiderio di vita, che c’erano tanti spunti e attitudini e modi di essere e di mostrarsi che hanno perso senso, così che ciò che poteva mutare non muta più, ciò che poteva essere diverso resterà definitivamente uguale.
L’ultima condizione è quella fatale. E vederli, questi morti quotidiani, ci fa dubitare della nostra stessa vita, ci fa avvertire il presagio che ciò che si è fatto una volta si faccia per sempre, costringendoci a non poter immaginare altro destino oltre quello che è stato e che, ora, non è più possibile mutare. È un memento mori, è un richiamo a un destino inevitabile dell’uomo. È ribaltare il mondo. Questo vedere la vita dalla parte della morte, avvertirne l’assurdo, riconoscere che soltanto questo estremo travestimento consente di dire la verità, è la sostanza profonda dell’arte di Inzerillo, burattinaio della morte, implacabile sconfitto che porta anche la propria anima alla morte. Nulla è immortale, se non Inzerillo.
(Vittorio Sgarbi)
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Cesare Inzerillo, Artista
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Contemplazioni
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( condivisione dal sito web " DanielaScarel.com )
foto scattate da Daniela Scarel
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